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Francesca De Falco: “Vi spiego cosa inquina quando fate la lavatrice”

22 Feb, 2022 | Interviste

Francesca De Falco è laureata in Ingegneria Aerospaziale preso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Ha lavorato come Project Engineer nell’ambito del progetto europeo IRECE. É stata assegnista di ricerca presso l’Istituto per i Polimeri, Compositi e Biomateriali del Consiglio Nazionale delle ricerche (IPCB-CNR) dove è stata coinvolta nel progetto europeo Life+ “MERMAIDS – “Mitigazione dell’impatto delle microplastiche rilasciate dai processi di lavaggio dei tessuti”.

Ha intrapreso in seguito il dottorato in Ingegneria dei Prodotti e dei Processi Industriali in collaborazione con l’IPCB-CNR. 

Divenuta appassionata dell’inquinamento da microplastiche, la elaborato la sua tesi di dottorato sul tema “Inquinamento da microplastiche rilasciate da tessuti sintetici: analisi quantitativa e strategie di mitigazione”, grazie alla quale ha vinto il premio Eni Young Researcher of the Year 2020. Nel mese di aprile 2021 si è trasferita presso l’Università di Plymouth per lavorare come ricercatrice post-doc nel gruppo di ricerca guidato dal prof. Richard C. Thompson. 

indumenti inquinanti lavatrice

Dicono che una percentuale tra il 15 e 30% delle microplastiche presenti negli oceani sia composta da microplastiche primarie, ossia già spezzate in microscopici frammenti. E quelle secondarie quali sono?

In generale, le microplastiche secondarie derivano da frammentazione di oggetti in plastica più grandi. Una busta di plastica per esempio, si può distruggere a causa dei raggi uv, del vento, delle onde del mare, subisce quindi una degradazione meccanica del materiale, e si spezza in frammenti piccoli. Le primarie invece sono quelle che vengono già prodotte in dimensioni micrometriche, quelle nei cosmetici per esempio, le cosiddette “lacrime di sirena”, delle sfere utilizzate nei prodotti esfolianti. Alcuni fanno rientrare nelle microplastiche primarie anche i tessuti e i pneumatici, più per come vengono prodotti, per come vengono depositati nell’ambiente, ma c’è anche chi le considera secondarie. Devo dire che c’è molta confusione sulla nomenclatura. 

Dicono che una percentuale tra il 15 e 30% delle microplastiche presenti negli oceani sia composta da microplastiche primarie, ossia già spezzate in microscopici frammenti. E quelle secondarie quali sono?

In generale, le microplastiche secondarie derivano da frammentazione di oggetti in plastica più grandi. Una busta di plastica per esempio, si può distruggere a causa dei raggi uv, del vento, delle onde del mare, subisce quindi una degradazione meccanica del materiale, e si spezza in frammenti piccoli. Le primarie invece sono quelle che vengono già prodotte in dimensioni micrometriche, quelle nei cosmetici per esempio, le cosiddette “lacrime di sirena”, delle sfere utilizzate nei prodotti esfolianti. Alcuni fanno rientrare nelle microplastiche primarie anche i tessuti e i pneumatici, più per come vengono prodotti, per come vengono depositati nell’ambiente, ma c’è anche chi le considera secondarie. Devo dire che c’è molta confusione sulla nomenclatura. 

Dicono che una percentuale tra il 15 e 30% delle microplastiche presenti negli oceani sia composta da microplastiche primarie, ossia già spezzate in microscopici frammenti. E quelle secondarie quali sono?

In generale, le microplastiche secondarie derivano da frammentazione di oggetti in plastica più grandi. Una busta di plastica per esempio, si può distruggere a causa dei raggi uv, del vento, delle onde del mare, subisce quindi una degradazione meccanica del materiale, e si spezza in frammenti piccoli. Le primarie invece sono quelle che vengono già prodotte in dimensioni micrometriche, quelle nei cosmetici per esempio, le cosiddette “lacrime di sirena”, delle sfere utilizzate nei prodotti esfolianti. Alcuni fanno rientrare nelle microplastiche primarie anche i tessuti e i pneumatici, più per come vengono prodotti, per come vengono depositati nell’ambiente, ma c’è anche chi le considera secondarie. Devo dire che c’è molta confusione sulla nomenclatura. 

In che modo il lavaggio in lavatrice contribuisce al rilascio di microplastiche nell’acqua?

Gli studi fanno riferimento a un buon 35%. Poi vengono i pneumatici (28%) e vernici, la polvere urbana…E poi i prodotti plastici nella vita di tutti i giorni.

So che avete fatto degli studi per capire quali sono i tessuti che rilasciano più microfibre. E’ proprio vero che i capi in poliestere sono i più dannosi?

Sì, gli studi sono stati fatti per capire quali parametri tessili influenzano il rilascio di microfibre. I filati tessili, o sono fatti da fibre continue o da fibre corte. Se il filato è fatto da fibre corte, è più facile che a seguito dell’azione meccanica queste fibre sfuggano al filato e vengano rilasciate nella lavatrice. Più attorcigliato è il filato, più le fibre sono tenute insieme in modo compatto. I capi in poliestere, avendo un filato lungo e molto compatto, sono maggiormente resistenti.

Perché il cotone rilascia più microplastiche dei tessuti sintetici?

Perché essendo una fibra naturale é caratterizzato da  fibre corte, a differenza di quelle sintetiche, prodotte come fibre continue. Inoltre le fibre di cotone, essendo idrofile, si bagnano molto e diventa così più facile per loro uscire e distruggersi. Il fluido genera e favorisce la mobilitazione di fibra. 

Ma sento parlare molto dei vantaggi ambientali delle fibre naturali…

Dobbiamo pensare che le fibre naturali non rimangono come sono, queste vengono trattate e subiscono una serie di trattamenti. Vengono aggiunte tinture e additivi per rendere il tessuto idrorepellente, durevole, per i trattamenti di finissaggio… Si parte certo da una fibra naturale, ma questa subisce poi delle alterazioni. Alla fine non ha più la struttura di cellulosa presente in natura. Non sappiamo ancora cosa succede quando finisce nell’ambiente, ma quello che sappiamo è che le fibre naturali vengono ritrovate negli oceani in presenza consistente, infatti la maggior parte delle fibre che hanno trovato i ricercatori sono fibre naturali, non solo di natura cellulosica, ma anche fibre in lana. La domanda che ci siamo posti è quindi: perché troviamo queste fibre? Probabilmente tutti i trattamenti che subiscono influiscono sulla loro persistenza nell’ambiente. 

Quindi non si sa se i capi in cotone siano migliori sotto questo punto di vista?

No, non sappiamo se acquistare i capi in cotone sia meglio, perché c’è tutta una serie di additivi che può essere un rischio per l’ambiente. Lo stesso vale per il cachemire e la lana.

Perché c’è ancora tanta poca chiarezza?

Il problema è che l’industria tessile è poco trasparente e non conosciamo i prodotti chimici utilizzati per trattare i tessuti, quindi non possiamo capire qual è il rischio per l’ambiente. 

E le bag di cui si parla molto, quelle al cui interno inserisci i vestiti per il lavaggio in lavatrice?

Il problema di queste bag è che sono solo un palliativo, perché non si sa ancora come gestire le microfibre che restano nel sacco. Una parte di esse rimangono all’interno della busta, ma la busta va lavata poi e dove finiscono queste microplastiche? Bisogna evitare di dare un messaggio facile, non è che la busta è una soluzione al problema. Protegge il tessuto durante il lavaggio, andando a preservare l’indumento e quindi diminuisce il rilascio di microfibre, ma chiaramente non possiamo mettere tutto il carico di 5 kg nella busta. E poi dobbiamo comunque essere certi che gli indumenti vengano ben lavati.

Qual è il limite maggiore che noti?

Non possiamo lasciare al consumatore l’incombenza di occuparsi delle microplastiche rilasciate nella busta, e in questo momento non c’è alcuna indicazione a riguardo.

Come impattano gli additivi sui tessuti?

Ci sono degli studi che evidenziano come fibre non trattate dimostrino di avere un comportamento diverso nell’ambiente. Ci sono pochi studi e quello che noi scienziati andiamo ad ipotizzare è che siano questi additivi che vanno ad alterare quella che dovrebbe essere una naturale biodegradabilità del tessuto.

Ed esistono degli additivi naturali?

No, bisognerebbe investire nella ricerca per trovare delle alternative. Dovremmo inoltre compilare una banca dati con le 10.000 sostanze di additivi presenti nella plastica di cui ancora non si conosce la tossicità. Alcune aziende inseriscono delle etichette di sostenibilità ma è difficile vedere quanto di quello che predicano sia vero. Io ho lavorato su di un progetto per cercare un materiale alternativo, utilizzando polimeri naturali più o meno biodegradabili. Ho usato la pectina, che con un trattamento chimico viene modificata per ancorarla sul tessuto, e con dei polimeri per vedere biodegradabilità. Questi test sono stati promettenti perché hanno ridotto il rilascio microplastiche del 90% ne. Si tratta di uno strato molto sottile che va a proteggere il tessuto nel lavaggio.

E’ vero che è meglio utilizzare il detersivo liquido rispetto a quello in polvere?

Il detersivo in polvere crea attrito e andando a frizionare il tessuto facilita il rilascio di microfibre. L’ammorbidente è di aiuto invece, dai test preliminari abbiamo notato una riduzione del 35% del rilascio di microfibre quando utilizzato, perché riduce l’attrito e va a ridurre l’azione meccanica. Inoltre l’ammorbidente serve ad aumentare la durabilità del capo e a  preservarlo.

E per quanto riguarda i filtri della lavatrice?

I filtri della lavatrice hanno bisogno di una certa porosità. Le lavatrici attuali non hanno filtri per le microplastiche, alcune aziende hanno fatto dei filtri esterni e c’è solo un’azienda che ha inserito un filtro interno ma alcuni filtri servono, vari studi che li hanno testati constatano un 70% della riduzione di rilascio di microfibre. E’ sicuramente una parte della soluzione, ma cosa ne facciamo del filtro dopo? Come lo smaltiamo?

E quindi quale sarebbe la soluzione?

Non c’è una soluzione facile, bisogna agire su diversi livelli. Le aziende produttrici di lavatrici sono il fanalino di coda, quelle che hanno svolto meno azioni al momento. L’azienda tessile incolpa le aziende di lavatrici, quella delle lavatrici incolpa quella tessile, ed entrambe dicono che il problema deriva dagli impianti di depurazione.

E i filtri delle reti idrauliche in che modo possono essere utili?

Gli impianti di depurazione variano da Paese a Paese. In alcuni Paesi riescono a trattenere anche il 99% delle fibre immesse. Certo è una buona cosa, ma se anche ci fosse l’1% che non viene trattenuto, poiché parliamo di volumi enormi e di sostanze che persistono nel tempo, sarebbe comunque un problema di concentrazione da considerare. Allo stato attuale le concentrazioni di microplastiche non sono tali da aver raggiunto un punto critico, ma se aspettiamo ancora, poi sarà difficile rimediare.

E’ vero che il calore dell’acqua influenza il rilascio di microfibre?

Sì, più le condizioni di lavaggio sono stressanti per il tessuto, maggiore è il rilascio.

Quali sono i tuoi consigli per quanto riguarda l’acquisto degli indumenti?

Io cerco di evitare il fast fashion, ossia il movimento per cui bisogna comprare indumenti che costano poco e in maniera compulsiva. Le microplastiche sono solo la punta dell’iceberg, dopo l’aviazione il tessile è l’industria che inquina di più al mondo, ha dei processi di produzione né sostenibili né trasparenti. Quello che incoraggio è il modo in cui ci approcciamo alla moda: dovremmo comprare meno e scegliere tessuti di qualità migliore.

Cosa dovremmo fare noi consumatori?

Chiedere maggiore trasparenza all’industria della moda, d’altronde si tratta di capi che sono a contatto con la nostra pelle, e abbiamo tutto il diritto di conoscere le sostanze utilizzate nella produzione degli indumenti. Nell’etichetta dovrebbero essere presenti le sostanze utilizzate per la tintura, finissaggio… Se i consumatori iniziassero a chiedere, allora la domanda cambierebbe e le aziende dovrebbero adeguarsi. Io ho esperienza nei tessuti, capisco al tatto come sono fatti, ma il consumatore medio non può saperlo.

E concretamente cosa bisognerebbe fare?

Bisognerebbe partire dalle leggi, obbligare i produttori a comunicare quante microfibre rilascia ogni indumento ed incentivare il design delle aziende a creare tessuti che di base non inquinano.